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University of Toronto

http://www.archive.org/details/miscellaneadistuOOgraf

MISCELLANEA DI STUDI CRITICI

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MISCELLANEA

DI

STUDI CRITICI

EDITA IN ONORE DI

ARTURO GRAF

COLLABORATORI

M. Barbi P. Bellezza E. Bertana

G. Boffito A. Butti G. A. Cesareo P. Ckistoni

V. Cian V. Crescisi B. Croce G. Crocioni A. D'Ancona

S. De Chiara C. De Lollis F. D'Ovidio A. Farinelli A. Fiammazzo F. Flamini

G. Fraccaroli G. Gigli E. Gorra G. Grober G. Mazzoni F. Movati

G.Paris— L. G. Pélissier E. Pèrcopo L. Piccioni G. Pitré

R. Renier V. Rossi A. Salza C. Salvioni I. Sa-

nesi P. Savj-Lopez E. Sicardi B. Soldati

A. Solerti P. Toldo P. Toynbee

H. Varnhagen N. Vaccal-

LL'ZZO K. VoSSLER

BERGAMO

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFI^Il^ I903

Diritti riservati

AD

ARTURO GRAF

LUCIDO ACUTO INTELLETTO DI CRITICO

PENSOSA ANIMA DI POETA

DA PIÙ DI CINQUE LUSTRI

NELL'ATENEO TORINESE

MAESTRO

SAPIENTE GENIALE ED ALTO

QUESTO TRIBUTO

DI RICONOSCENZA D'AFFETTO D'AMMIRAZIONE

OFFRONO CONCORDI

DISCEPOLI AMICI ESTIMATORI

Giugno MCMIII

Comitato promotore delle onoranze: Emilio Bertana Vittorio Cian Corrado Corradino Dino Mantovani Rodolfo Renier Vittorio Rossi Ettore Stampini Luigi Valmaggi.

Sottoscrittori: Luigi Aceto Vittore Alemanni Ida Alteri Osorio Branconi A. Altieri di Sostegno Biagio Allievo Onorato Allocco

Oreste Antognoni Giannino Antona Traversi Giuseppe Anzi Vincenzo Armando Vittorio Amedeo Arullani I. Graziadio Ascoli

Associazione universitaria torinese Francesco Audenino Guido Audisio Adolfo Avetta William Axon Orazio Bacci Eugenia Balegno Irene Balegno Giovanni Balma Giovanna Baralis Or- sola Maria Barbano Francesco Barberis G. Battista Barberis -

inni Barbero Michele Barbi Felice Bariola Girolamo Bartoli

Alfred Bassermann Domenico Bassi Paolo Bellezza Antonio

Belloni Egidio Bellorini Silvio Bellotti Roberto Bergadani Carlo Bernardi Arturo Bersano Cosimo Bertacchi Nazario Ber- tazzi Alfonso Bertoldi Cesare Bertolini Giulio Bertoni Enrico Battazzi Alfredo Bezzi Giuseppe Biadego Leandro Biadene - Guido Biagi Biblioteca Braidense di Milano Biblioteca Cosentina

Biblioteca del Ministero degli Esteri in Roma Biblioteca di S. M. il Re in Torino Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze Bi- blioteca Nazionale di Palermo Biblioteca Nazionale V. E. di Roma Biblioteca Nazionale di Tori io Biblioteca Universitaria di Catania Biblioteca Universitaria di Pavia Biblioteca Universitaria di Pisa Ari- stide Biglione di Viarigi Ettore Bignone Giuseppe Binelli Cle- mente Bobbio Filippo Boffa Giuseppe Boffito F. E. Bollati di Saint Pierre Luigi Cesare Bollea Carlo Emanuele Bona Vincenzo Bona, ditta Carlo Bonardi Dino Bongini - Massimo Bontempelli

Luigi Borlengo Paolo Boselli Onorato Bottero Luigi Botti

Rachele Botti Binda Eugène Bouvy Cesare Bozzalla Carlo Braggio Emilio Brusa Gennaro Bruschi Attilio Butti Giuseppe Calligaris Bartolomeo Calvi Giovanni Camera Lorenzo Camerano

Jules Camus Luigi Cane Gustavo Canti Gustavo Caponi Giuseppe Carle Giuseppe Carra Dario Carraroli Francesco Carta

Severino Casana Casino di Società in Cosenza Elisa Castagnola Gattico Giulia Cavallari Cantalamessa Luigi Cerrato G. Alfredo Cesareo G. Pietro Chironi Paride Chistoni Mario Christillin Laura Ciceri Luigi Cigoli Carlo Cipolla Circolo Filologico di To- rino _ Dario Claris Carlo Clausen, libreria Enrico Cocchia Henri Cochin Gaetano Cogo Francesco Colagrosso Carlo Contessa Giuseppe Copperi Giuseppe Corradi Angela Coscia Alfonso Cossa

Bruno Cotronei G. B. Cottino Wilhelm Creizenach Olga Cre- monese - Vincenzo Crescini Benedetto Croce Giovanni Crocioni

Gaetano Curcio Giuseppe Dabalà G. Dalla Vedova Alessandro D'Ancona Francesco De Agostini Vincenzo De Bartholomaeis Santone Dabenedetti Francesco De Cardenas Stanislao De Chiara

Angelo De Gubernatis Charles Dejob Ildebrando Della Giovanna _ Lorenzo Delleani Cesare De Lollis Carlo De Magistris Giuseppe De Magistris Ettore De Marchi Pasquale D'Ercole Emanuele Da- rege di Donato Gaetano De Sanctis Enrico D'Ovidio Francesco D'Ovidio Ranieri Enrico Carlo Errerà Federico Eusebio Gio- vanni Faccaro Antonio Faiani Arturo Farinelli Sesto Fassini Luigi Fassò Lorenzo Fenoglio Achille Ferrari Luigi Ferrari Er- manno Ferrerò Corinna Ferrucci Antonio Fiammazzo Michele Fi- leti Carlo Fiorio James Fitzmaurice Kelly Francesco Flamini Giuseppe Flechia Arturo Foà Pio Foà Wendelin Foerster Antonio Fogazzaro Leone Fontana Arnaldo Foresti Silvia Fortis Giu- seppe Fraccaroli Alfredo Frassati Carlo Frati Vittorio Frutaz Guido Fusinato Paolo Gaffuri Giovenale Gamna G. M. Gamna

Gemma Garino Federico Garlanda Cristina Garosci Marco

Terenzio Garrone Giulio Gastinelli Lorenzo Gatta Alberto Geis- ser Giovanni Gentile Maria Gervasone P. Geusoult Giuseppe Ghibaudo Pietro Ghione Carlo Giambelli Antonino Giannone Giuseppe Gigli Efisio Giglio Tos Bortolo Gilardi Agnesina Giorgi

Cesare Goda Gatti Egidio Gorra Giacomo Gorrini Giovanni ti urini Ottavio Gracis Ernesta Francesca Grassi Vittorio Gra- ziadei T. A. Griletti Alessandro Grimaldi Gustav Grober Henri Hauvette Livia Hercolani Luigi Hugues Gaetano Imbert

Antonio Ive W. P. Ker Giuseppe Lampugnani Luigi Lampu- gnani Vittorio Lanfranchi Alessandro Lattes Elia Lattes Mas- simo Lerchentin De Gubernatis Attilio Levi Davide Levi Ettore Levi Giulio Levi Luigi Leynardi Liceo Ginnasio Carlo Botta d'I- vrea — Maria Lucat Emilio Lucio Alberto Lumbroso Albino Machetto Edgardo Maddalena Luigi Magni Arturo Magnocavallo

Giuseppe Manacorda Mario Mandalari Antonio Manno Luigi Manzini Mario Margaritori Riccardo Adalgiso Marini Maria Mat- talia — Luigi Mattirolo Guido Mazzoni Antonio Medin Giovanni Melodia Ulrico Menicoff Domenico Merlini Attilio Momigliano

E. T. Moneta Andrea Moschetti Jole Moschini Biagini An- gelo Mosso Adolfo Mussafia Andrea Naccari C. A. Nallino Giulio Natali Oreste Nazari Ferdinando Neri Costantino Nigra

Matteo Nolfi Andrea Novara Angiolo Silvio Novaro Dome- nico Novasio Francesco Novati Biagio Olivazzo Camilla Olivero

Domenico Orano Francesco Orestano Leonetto Ottolenghi Pasquale Papa Gaston Paris Ernesto G. Parodi Francesco Pa- stonchi Federico Patetta Mariano L. Patrizi Giovanni Patroni Mario Pelaez Leon Gaston Pélissier Flaminio Pellegrini Erasmo Pèrcopo Bernardino Peyron Domenico Pezzi Mario Piacenza Carlo Picca Luigi Piccioni Francesco Picco Emil Picot For- tunato Pintor Attilio Piovano Silvio Piovano Giuseppe Pitrè Alessandro Piumati Giuseppe Pochettino Vincenzo Poggi Man- fredi Porena Tancredi Pozzi Licinia Prato Martorelli Giovanni Angelo Rabbia Antonio Rado Pio Rajna Emilio Kambaldi Luigi Rambaldi Ilario Rapisardi Giuseppe Rasteri Cesare Ra- vello Alberto Reber Emilia Regis Hermann Rentschler Paolo Revelli Carlo Reymond Girolamo Ricaldone Costanzo Rinaudo

Hans Rinck Giuseppe Roberti Alessandro Roccavilla Antonio Rolando Mario Rosazza Francesco Rossi Giorgio Rossi Luigi Rossi Pier Paolo Rossi Giuseppe Rossotto Giuseppe Rua Fran- cesco Ruffini Giovanni Ruzzanti Gaetano Sacchi Marco Sacer- dote — Giovanni Sacheri Giovanni Saletta Mary Salvagny I Salvioni Giuseppe Salvo Cozzo Abdelkader Salza Ireneo Sanesi

Luigi Sansoni Beniamino Santoro Mercurino Sappa Paolo Savj Lopez Alfredo Saviotti Nicola Scarano Michele Schedilo Hein- rich Schneegans Arturo Segre Corrado Segre Giovanni Sforza

Enrico Sicardi Benedetto Soldati Angelo Solerti Silvia Stampini Angelo Taccone Peppina Thermignon Angelo Timo Adolf Tobler

Felice Tocco Pietro Toldo Aronne Torre Paget Toynbee Ludwig Traube Emilio Treves Giuseppe Treves Pia Treves Camillo Trivero Paolo Raffaele Trojano Giulio Urbini Nunzio Vaccalluzzo Pompeo Valente Hermann Varnhagen Marco Vat- tasso Carlo Verzone Alessandro Viglio Pasquale Villari Francesco Viscardi Girolamo Vitelli Karl Vossler Karl Wahlund

Alessandro Wesselofsky Berthold Wiese Fredrik. Wulff Fran- cesco Zambaldi Filippo Zamboni Enea Zamorani Paolo Zolin Giuseppe Zuccante Bonaventura Zumbini C. O. Zuretti.

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La versificazione delle Odi Barbare

^^ EL mio lavoro Sull'origine dei versi italiani toccai di fuga la poesia « barbara > (Giorn. stor. d. leti, it., XXXII, p. 20-21 n.), solo per additare il rapporto in cui essa sta con la usuale versificazione italiana, e così illuminare anche di rimbalzo la genesi di questa. Di più non potevo, in una dissertazione così densa, trascorrente per tanta distesa di tempo e di spazio, rivolta a dimostrar una tesi storica, schiva di venire pur in apparenza a polemiche che semplicemente storiche non fossero. Ma qualche lettore si rammaricò che in cambio d'una breve nota non avessi scritta una lunga appendice : ed eccomi a so- disfar alla meglio un tal desiderio. Il quale ben si comprende come nascesse. Allorché il volumetto delle Odi Barbare venne fuori, si scatenò un uragano di applausi, di malumori, di spie- gazioni e apologie; vennero in più voga studii per l'Italia nuovi, si ritornò a cose dimenticate. La confusione fu grande, le sguaiataggini non poche; le questioni facilmente si spostarono, i propositi del Carducci non furono nemmen capiti a dovere. Molti dilettanti si provarono al bersaglio teorizzando, senza riu- scire a dar nel segno, o non appieno; mentre i dotti dal canto

2

FRANCESCO D'OVIDIO

loro sentenziarono più in privato che in pubblico, e spesso alla stordita. tornava possibile che così non avvenisse. Ristretta ancora a pochi era una conoscenza non grossolana della me- trica greca e latina, e la nozione delle dottrine e consuetudini di scuola germaniche nella materia. Rammento che ci consul- tavano come se fossimo de' maghi in possesso d'un segreto ; e ci accadeva di dar responsi giusti in medesimi, resi pure opportuni dalla troppa innocenza altrui, ma che non arrivavano sempre al nodo della questione. E non ci arrivavano, perchè i quesiti ci venivan posti male o li frantendevamo, perchè ci mancava una cognizione precisa dei tentativi che più secoli prima del Carducci s'eran fatti in Italia, e finalmente e so- prattutto perchè a rispondere a tono ci sarebbe abbisognata un' idea chiara del come i versi italiani propriamente detti si fossero formati: e un'idea chiara non l'avevamo. Oggi parecchi l'hanno o son vicini ad averla, o almeno possono trovare un- fulcro al loro ragionamento in quell' idea appunto che io ho propugnata con ardore, e nella quale ho una fede più che mai sicura. Vero è che il fascicoletto dello Zambaldi, che già ne dava un abbozzo, ebbe molto e meritato credito; ma esso potea parere una troppo spiccia applicazione d' un principio troppo sistematico, atto a sedurre per un'illusoria semplicità. E con la esposizione asciuttamente scolastica non persuadeva i più dei lettori, bisognosi d'esser convinti con una larga dimostrazione, che si estendesse a tutto il campo neolatino e allegasse prove storiche, non solo schemi metrici; mentre insieme, pel continuo ricorrere alle notazioni musicali, sbalordiva o sgomentava coloro che in musica sono orecchianti od orecchiuti.

Sbollite le dispute, fatte più ardue e aspre dall'importuno inframettersi nella questione metrica le simpatie o antipatie per le qualità intrinseche della poesia del Carducci, abbandonata piuttosto che risoluta la controversia, quelle qualità intrinseche- parvero risolverla in fatto, se non in diritto. Ma è naturale che-

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE

all'occasione del mio lavoro si sia ridestata in taluno la smania d'una risoluzione anche teorica. La passione della polemica s'è quetata, ma il ricordo ne sopravvive; e v'è sempre un diletto particolare nel riandar le cose in cui è già finita la lotta e non è ancor cominciata la storia. Riandiamo dunque, ma con queste due riserve: che il penetrar nella sostanza del pensiero poetico, sia pure per meglio spiegare psicologicamente il perchè al poeta venisse in taglio la nuova forma, ed il come questa forma ab- bia reagito sulla sua poesia, non è il mio vero assunto ; e che di far la storia e la critica di tutti quei dibattiti, riconoscendo la parte di ciascuno che vi entrò, io me la sento, altri me ne deve ascrivere in qualsivoglia misura il proposito. Nessuno quindi fiuti tra le mie righe o coperti giudizii estetici, d'apo- logia o di censura, od allusioni a scritti matrici altrui, che forse neppur vidi mai. Ne rileggo, se non incidentemente, quel che allora lessi, cerco quel che mi sfuggì: mi bastan le remi- niscenze non del tutto svanite, e guardo direttamente al sog- getto, limitato alla metrica. Se non facessi così, non avrei tempo e modo di trattarne.

Quale agli occhi di molti parve che fosse l'ambizione del Carducci? Di far versi a piedi, non a sillabe; a quantità, non ad accento: di riprodurre insomma in lingua italiana i versi quantitativi delle lingue antiche, rompendola, almeno per alcun tempo, cogli usati versi italiani, regolati a sillabe ed accenti. I quali comunemente si credevano nati per generazione spon- tanea, non che per necessaria conseguenza della mutata strut- tura del volgare di fronte al latino. Ovvio era quindi obiet- targli: ma il volgare non ha più la quantità, e come pretendete far versi quantitativi? Perchè abbandonate, sia pure provviso- riamente e per un di più, la grande tradizione nazionale, arri-

12 FRANCESCO D'OVIDIO

sicandovi a un'impresa impossibile? Se i Tedeschi han potuto far buoni esametri e altre simili contraffazioni, gli è che nella lor lingua sillabe lunghe e brevi ci sono. Ma voi arrenerete, come già altri dal Rinascimento ai giorni nostri.

Or in tutto ciò v'erano esagerazioni parecchie. Non tutti i versi latini prescindono dal numero delle sillabe, che il saf- fico, per esempio, e l'adonio, e gli alcaici, e il falecio, e gli asclepiadei. hanno oltre il resto il numero fisso delle sillabe: e, per non dir dei tetrametri giambici e trocaici, gli stessi trimetri giambici, malgrado l'elasticità di cui furon capaci, soprattutto in certi generi, si potevan però fare secondo un tipo più puro, più conforme allo schema teorico, di dodici sillabe invariabil- mente. Sicché una delle obiezioni non valeva così per l'appunto contro gli alcaici e altri versi carducciani, come valeva e vale contro gli esametri, che in latino oscillavano fra le tredici e le diciassette sillabe, e contro i pentametri, che ciondolavano fra le dodici e le quattordici. Inoltre, non è esatto che la lingua tedesca, sebbene abbia vocali prolungate e una certa distin- zione tra lunghe e brevi, sicché in parole come bahnen bàJien Etire cure si possa ravvisare un trocheo, possegga proprio la quantità nel senso preciso che intendiamo del greco o del la- tino o del sànscrito.

Neppure è esatto che le lingue neolatine siano interamente prive di quantità. Spieghiamoci, la quantità latina è andata perduta del tutto, e il fonologo soltanto ne riconosce la traccia indiretta nella differenza tra puotc e pone, tra fiero e feci, tos- sico e conosco, ésca ed ésca, gola e fumo, pero e miro, agosto e giusto, detto e scritto, e via discorrendo all'infinito; ma ciò non vuol mica dire che le lingue romanze non possano avere una lor propria quantità, di carattere tutto fisiologico ed eufo- nico, scevra d'ogni legame storico con la quantità latina. Un bel capitolo sulla quantità romanza sta sulla fine del primo vo- lume della Grammatica del Diez; ed in esso, se qualche idea

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE

fondamentale è discutibile, se qualche altra è addirittura da re- spingere (per quanto concerne gì' insegnamenti degli antichi grammatici provenzali io sono stato sempre del parere di Paul Meyer e di Mila y Fontanals, che vocali larghe e strette sian da intendere nel senso italiano e non di lunghe e brevi), se v'è una confessata perplessità su certi particolari ragguagli, c'è però nel tutto insieme una verità innegabile, colta dal grande filologo col solito suo garbo. In ispecie il francese ha a modo suo una quantità, e non ci vuol molta scienza per conoscere o intravedere che è lunga la vocale di àge àme gràce mùr tète tàche pècher fobie //eros ecc., e breve quella di courage madame face tache pécher table caprice ecc. ecc. Notevole è la falange delle voci come tremble trembler, per la nasale lunga. E vero che molte parole restan dubbie, che se la sillaba perde l'ac- cento quasi di regola s' abbrevia, che nella somma le brevi sono assai più che le lunghe, che basta la collocazione diversa d'una parola nella proposizione per farle perdere la lunghezza della vocale, che l'accento oratorio può così avvalorare come sopprimere certe distinzioni, che la moda può molto ; e che il grammatico più benemerito in questa faccenda, il vecchio Béza, ammoniva gli stranieri di guardarsi dalle esagerazioni, e come Eosse minor male pronunziar tutto breve che correre il rischio d'allungare indebitamente. Ma a buon conto una quantità fran- cese esiste, e lasciamo andare se sia poi tale da potervi fondar su una versificazione quantitativa. Per ciò che riguarda I' ita- liano, il Diez insegnerebbe che riesca un po' più lunga la vo- cale accentata in sillaba aperta {vita pero) che non quella in posizione {vitto cerro, vista gente...) e che la vocal finale ac- centata {amò) sia breve, com'è pure in ispagnuolo.

Convien indugiarsi qui un poco. Che vi sia una diffe- renza di quantità tra IV di vita e quel di vitto o vista, molti Italiani stenteranno a capacitarsene, o, se mai, la dovran tro- vare quasi impercettibile. I Meridionali, sì, non potranno ne-

FRANCESCO D'OVULO

gare che nelle voci piane {nutro amore) pronunziano molto stra- scicata la vocale accentata; di che però i Toscani li deridono. Minore strascico soglion fare se la vocale è in posizione, come in porta cesta carro passo e simili. Omettiamo di discendere a casi speciali di certi dialetti, come per esempio dove il verna- colo di Napoli dice aaa casa per a la casa. Vi si ha addirit- tura una somma di tre more, il pinta della grammatica indiana, anziché la doppia mora che di solito si ascrive alla lunga greco- latina. E forse lo stesso è a dir di muro, amore, e gli altri casi simili, in certi vernacoli o su certe bocche o in certi momenti. Ma anche qui, a prescinder che si tratta di fenomeni regionali, han luogo gran differenze da paese a paese, da individuo a individuo, da un posto a un altro che la parola abbia nella frase. Fondar su ciò una poesia metrica tornerebbe assurdo anche per il solo Mezzogiorno '). Fondarla toscanamente sulla lieve differenza, fosse pur vera, che si volle ravvisare tra vita e vitto e simili, sarebbe cosa anche in un altro senso assurda, poiché al poeta occorre, caso mai, la quantità della sillaba, non della vocale presa in sé; e la prima sillaba di vitto vista, pur contenendo una vocale breve, sarebbe lunga per posizione, non meno che la prima sillaba di vita, se davvero questa avesse un i lungo. Insomma codesta via non mena a niente; ma io mi ci dovevo affacciare per iscrupolo d' esattezza, e per ri- conoscere che la sapienza filologica oppostasi al Carducci non era perfetta, poiché mostrava d' ignorare quel che la filologia romanza aveva indagato sulla quantità di nuovo genere che pur è o pare che sia nelle lingue nuove. Quando si fa il dot- tore addosso a qualcuno, bisogna che la dottrina sia com- pleta.

E non basta. Oltre la quantità novellina, le lingue romanze

1) U discarso si potrebbe estendere in ugual modo ad altre regioni, come, puta caso, la lombarda; dove la finale di Milan, felicità e simili, suol esser talora strascicata in un modo strano, * quale importa non solo un tempo lunghissimo, ma una specie di moJn- l azione sgraziata, il Parodi ha ora trattato di proposito le lunghe del genovese.

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE

hanno una quantità veramente ereditata dal latino; e di una eredità inalienabile, poiché ha un fondamento fisiologico, e si è anzi accresciuta per ulteriori acquisti. In parte ne h< i toccato or ora di sbieco. Voglio dire della quantità di posi- zione, oltreché poi di quella dei dittonghi e delle crasi. A spie- garci subito con qualche esempio, la prima sillaba di cervo, e la prima e seconda di percosso, è lunga per posizione più meno di quel che era nelle rispondenti voci latine. E del pari lungo è rimasto per essenza sua il dittongo di neutro Eu- ropa lauro aurora cui e sim. ; come lungo é, quando conta per una sola sillaba nel verso, cioè normalmente entro il verso, il dittongo di nuova formazione che abbiamo in noi poi dai vi ti sei, feudo laido, fai bei quei figliuoi e simigliatiti. S'ag- giungano tutti i casi in cui la sinizesi possa fare una sola sil- laba di due vocali attigue o divenute attigue, come in Eolo Enea facea, mio tuo, e va dicendo. Non metto in campo i dit- tonghi ie e no, sia di nuova schiusa e non suscettibili di die- resi, come quel di fiero, primiero, buono, sia risultati da crasi e suscettibili di dieresi, come quel di oriente paziente quieto pietà ; giacché costì I' * e V u sono ormai vere consonanti (j\ w all'inglese), non meno che in quasi distinguo tacqui, guerra, epperò, come tutte le consonanti che precedono la vocale, non devono influire sulla quantità della sillaba. Lo stesso dicasi di altri apparenti dittonghi, come in chiaro ghiaccio piano pieno biasimo fiato.

Per tornar un momento alla quantità di posizione, la filo- logia del secolo XIX ha finito col ricuperare l'autentico esano concetto degli antichi, i quali la riponevano nella sillaba, non nella vocale, che per conto suo poteva poi essere naturalmente breve come in septem (srr tz) o lunga come in nosco (yiyvw<;;M<>). Anche il senso originario del termine « posizione ; fu ripe- scato: con esso intendevano dire convenzione », contrapposto a « natura », come quando noi contrapponiamo il « diritto pò-

16 FRANCESCO D'OVIDIO

sitivo » al « naturale ». Solo sull'alba del medio evo si co- minciò a frantendere e a vederci la « postura », la situazione della vocale innanzi a un gruppo di consonanti o a consonante doppia; il qual malinteso agevolò l'erronea percezione che pro- prio la vocale divenisse lunga, per trovarsi situata a quel modo. Sennonché un malinteso o un'iperbole era stata pur quella dei tempi classici, di qualificar come « convenzionale » la lun- ghezza della sillaba in tal condizione. Poiché il vero è che sif- fatta lunghezza è tanto naturale quanto quella della vocale lunga per natura, e risulta dal doversi sommare col tempuscolo preso dalla vocale anche quello richiesto dal proferimento della consonante che le si addossa; come si vede, poniamo, in vàl- de di fronte a va-li-dus e in cur-rus fi s-sus e sim. Par che il conto non torni pei casi come gutta, che solo per simbolismo ortografico e non per realtà fonica si partisce in gut-ta; ma torna lo stesso, giacché sillabando gu-tta si sente che la prima sillaba non è tranquilla come quella di gala, ma vi si addossa la preparazione del suono, che poi esplode con la seconda sil- laba. La convenzionalità della cosa consistè dunque soltanto in ciò, che nel verso si calcolarono come perfettamente identici il peso o il tempo di sillabe quali son le sillabe iniziali di no-tus rios-co hos-pes, mentre le loro lunghezze han qualche divario tra sé. Ma tanto è vero che la lunghezza di posizione non fu un capriccio o artificio dei poeti, che essa ha sull'accento latino la stessissima efficacia della lunghezza per natura: come riu- sciva intollerabile fare sdrucciolo amicus, così il fare sdrucciolo acerbus. L'italiano (a tacer qui delle altre lingue romanze, per non portar la lunghezza anche nel mio discorso) serba la me- desima intolleranza ; che, salvo pochissime eccezioni più o meno spiegabili, come Taranto, mandorlo, Albizzi o involontarie e sui generis come leggerlo leggevanlo e sim., non si sognerebbe mai di favorire un tipo accentuale come acerbo. Di tutto ciò ho minutamente esposto la storia e la teorica in una disserta-

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE

/.ione che diedi alla Miscellanea Caix-Canello, e il ciel mi guardi dal volerla ripetere. Codesto riassunto m' è servito per venir a concludere come ai critici del Carducci, neganti ogni distinzione quantitativa alle sillabe italiane, si sarebbero potute imporre molte restrizioni.

Volete trochei ? si poteva dire ebbene pigliate : carne certo mensa passo vista tempio bello brutto figlio degno pesce Euro lauro causa inaisi mainò e via e via e via. Astraggo per ora dall'accento, e solo considero che una vocale semplice, fuor di posizione e non accentata, è evidentemente breve; sicché la seconda sillaba di carne è così indiscutibilmente breve come di certo è lunga la prima. Volete giambi? volar patir, o, sempre astraendo dall'accento, volan, e così via. Spondei? por tan portar causar augel augei... Dattili? dattero leggere seni, plice pendolo portano portalo passero augure Eupoli; e vi fo grazia del resto. Che vi disperiate forse per gli anapesti ? ri- derelli morirai patiran... Pegli anfibrachi? codardo vederlo ve- desti... Pegli anfimacri? invitar oscurai!... Ditrochei son passe- rotto canteranno Margherita ecc. Dipodie giambiche risorgerai ritorneran ecc. Se vi salta il ticchio che vi si avventi contro anche qualche molosso, eccoci: ammainar incolpar affrettali. Combinazioni e alternanze di lunghe e brevi sono dunque pos- sibili pur in lingua italiana.

Pigliamo due versi di Dante :

Ed ei s'ergea col petto e colla fronte, Come avesse lo inferno in gran dispitto.

Son tutte sillabe lunghe, tranne l' ed, il la di colla, il te di fronte, le due sillabe che aprono il secondo verso (com 'a), la sillaba finale di avesse e di dispitto. Pigliamone altri due :

Come ne' plenilunio sereni Tnvi'a ride tra le ninfe eterne.

FRANCESCO D'OVIDIO

Qui tutte brevi, eccetto la prima di ninfe e la seconda di eterne, ed eccetto pure la seconda di come e il tra, se Dante pronunziò a modo del toscano odierno, cioè traile e come mie' (cfr. comecché). E certo, nell'opposto effetto estetico che le due coppie di versi producono, v'entra per molto V abbondanza delle lunghe, qua delle brevi; oltre, s'intende, l'asprezza dei quattro erre complicati e di altre consonanti, e qua le due die- resi dolcissime. Nella solita nostra poesia cotali lunghe e brevi non son che mezzi di stile e d'armonia imitativa (prendendo questa anche in un senso più sottile dell'ordinario), non già elementi che sian calcolati per la struttura del verso; ma alla fin fine lunghe e brevi ci sono, e l' idea di fondarci sopra un metodo di versificazione non è assurda, in teoria almeno. Si sarà intanto notato che ho proseguito a prescinder dall'accento, e che d'altra parte ho considerato come lunghe per posizione quelle voci monosillabe, o quelle sillabe finali di parola, che to- scanamente fan raddoppiare la consonante iniziale della parola seguente, quali sono e, a, è ecc., come ecc., amò bontà e tutte le voci tronche in vocale. In amò lui l'iniziale del pronome, benché ciò non apparisca dall'ortografia moderna, è doppia più meno che in amollo, dove la cosa è manifesta anche all'occhio. Cosi è che nel primo verso di Dante ho dovuto con- siderare come lunga per posizione anche Ve di e colla. Orbene, con una tal prosodia, tutt'altro che fittizia, potremmo mettere insieme, per esempio, un esametro come

A noi tosto recandosi con rilucenti facelle,

ovvero, se si vuol la cesura,

A noi tosto farai portar rilucenti facelle.

che nulla avrebber da invidiare, per ciò che concerne la quan- tità, al più esemplare verso di Virgilio.

LA VERSU'ICAZIONE DELLE C)l>[ IlARBARIi

Fu questa la via per cui suppergiù si mise il Tolomei e fece una scuola. E fece pure un bel fiasco. Aveva egli grande acume grammaticale, così da precorrere in più cose la mo- derna glottologia romanza, ma gli mancava l'ingegno poetico. Correndo appresso alla fantasima d'una nuova poesia toscana, sprecò il tempo; e subordinando a quella il suo lavorìo di gram- matico, lo traviò spesso, e tanto Io rallentò, che finì con esser lui vittima d'una specie di plagio per opera di Celso Citta- dini l\ Per poeta il Tolomei era troppo unicamente filologo, per filologo ebbe troppo il capo alla poesia. Nelle norme pro- sodiche da lui fermate ve n' è alcune giuste, che la filologia moderna gli ruberebbe se già non le trovasse sulla propria via ; sennonché non solo aberrò qua e pur nella specifica- zione delle norme giuste, ma ne strologò altre o ingenue o ar- bitrarie o capricciose. Dato poi e non concesso che le fosser tutte ragionevoli, non sarebbe stato ragionevole lo sperare che si potesse seguirle appuntino, senza distrarsi, né, quel che è più, che con una tal bilancina alle mani si giungesse a fare vera poesia. Una casistica a quel modo può rallegrare, se mai, l'acume del filologo, non già incanalare la vena del poeta : il quale ha bisogno d'una norma istintiva, pure se ha l'arte di rifarcisi all'occorrenza per riflessione, e se bada altresì a norme secondarie più consapevoli e compassate. Difatto, tra i seguaci del Tolomei fallirono dal più al meno anche coloro che posse- devano un tantino più di sentimento poetico. E fallarono tutti, non di rado, nel praticar le pretese norme, come fallò talvolta lui noi ragionarne gli esempii :'. Rimaneva impigliato nella ra- g na da medesimo fabbricata 3K

1) Cfr. Sensi nell'Archivio ico XII, MI sgg., •■ nella Rassegna bibliografica 1. I. '.. I, 132 sg£.: e il mio articolctto, ibid. 46 Sgg.

2) Si guardi nel volume del Carducci, La r bara nei secoli A'!' e XVI, in ispccie a |)[). 419, 424. 435.

! i i voluto, in parentesi, veder di raccogliervi qualcosa per la grammatica storica

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mi ci vo' impigliar io, ma devo pur richiamare qual- cosa. Della licenza latina, che nella cesura dell'arsi la sillaba breve conti per lunga, ne faceva una regola fissa. Contava poi quei, via, cui e sim. come una sillaba breve, fuorché in fin di verso o in cesura, e salvo altre eccezioni per le quali riman- dava ai suoi futuri Dialogi. In voci come lauro scioglieva per norma il dittongo in due brevi, quando invece costì la dieresi è anomala e appena tollerabile. Computando come una lunga buoi e sim., vi contava all'occorrenza una lunga seguita da una breve; e attribuiva importanza, per la quantità, ai gruppi di consonanti che precedono la vocale, come in grido crudele spi- rito adom-bra ! Mentre viceversa la vocale isolata gli pareva rimanesse sol per questo abbreviata; cosicché, poniamo, fosse breve l'iniziale di era, e anfibia quella di eravi, quantunque se- condo lui era sarebbe stato lungo per natura sol perchè ha Ve aperta. E codesta era la sua maggior ubbìa: che fosse lungo Vo e Ve aperto, ch'ei chiamava « grande », breve Vo ed e chiuso o « picciolo ; sicché core posa bene fosser trochei, e pone vero pirrichii; e così posati dattilo, posero tribraco. E cr edesi a- vrebbe avuto la prima breve, stante la vocale stretta, se per il gruppo di consonanti iniziale non fosse divenuto ancipite ! Che garbuglio! Ancipiti reputava poi le altre tre vocali, se ac- centate; quindi potersi adoprare così per breve come per lunga la prima sillaba di caro vile luce simile ". Breve invece, benché

ed ecco la piccola messe. Dalla teoria e dalla pratica della scuola risulta che dopo le voci come e dove non pronunziavano doppia la consonante iniziale della parola seguente (quando fanno valer per lunga la seconda sillaba di come, non è per posizione, ma per cesura); il Tolomei avvertiva che in Toscana poteva variare da luogo a luogo la pro- nunzia dell'articolo dopo il monosillabo capace di produrre raddoppiamento, e quindi fosse del pari toscano da le, ira le ecc., come dalle traile ecc., sicché il poeta potesse scegliere ; e pronunziavan vola con o stretto ; e zoccolo con la zeta sorda. Inesplicabile mi riesce che attribuisse all'articolo nei gruppi l'alma, Vore, la capacità di allungare o no per posizione la sillaba precedente: non so o non ricordo che in qualche luogo di Toscana l'articolo suoni mai da Ilo Ila come a Napoli! Il Tolomei ci attesta pure proferirsi lunga la vocale di dell oh ah, e non venirne raddoppiatala consonante iniziale della parola seguente.

1) Codesto concetto, per quanto strano in sé, era pure una conseguenza del falso principio che la larghezza della vocale equivalga a lunghezza, e la strettezza a bre-

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE

sarebbe stata di sua natura ancipite, l'iniziale di umile, sol perchè spoglia di consonanti ; e lunga la prima sillaba di spirito, mal- grado la vocale ancipite, sol perchè questa v'è preceduta da un tal gruppo di consonanti! Curiose chimere; ma quando ri- penso che gì' insegnamenti dei grammatici provenzali poteron sulle prime suscitare nel Diez il sospetto che coloro dessero per lunghe le vocali larghe e per brevi le strette, mi vien da chiedermi se il paradosso del Tolomei non fosse per avventura collegato a un travisamento simile della tradizione provenza- lesca in Italia, o non mettesse capo a una comune fonte d'er- rore, quasi strascico di equivoci medievali circa la termino- logia dei grammatici latini. Per un uomo dotto è più legit- timo supporre questo che non un mero capriccio. Checchessia di ciò, egli poi teneva che core, anche troncato in cor, avanti a parola cominciante per vocale restasse lungo per natura ; come restasse breve ver {vero), e ancipite vii, e via dicendo. Faceva però netta distinzione tra le voci bisillabe e le trisillabe, ed in queste poneva sempre lunga, anche se stretta, la vocale accentata parossitona; quindi in valore, parere, la sillaba di mezzo era lunga senz'altro. E così pure in natio, ma con la riserva che in mezzo al verso il vocabolo divenisse bisillabo (na-tio) con la seconda lunga, sicché costituisse un giambo. Per aita prende abbaglio, ponendovi 1' i breve ed esemplificando ciò con un pentametro ove in effetto conta per lungo (p. 432 del citato libro del Carducci). I trisillabi sdruccioli invece li trattava come i bisillabi, secondo che s'è già visto in posati e pósero. Nei quadrisillabi piani trova due accenti, valoróso, e tratta la sillaba iniziale come ancipite, qual secondo le sue re- gole sarebbe in vale. Ecco scanditi due versi. In

Ella per antiquo sentier, per ruvido calle,

vita. Se isccndeva logicamente che le vocali a, i, ti, non potendosi suddividere in larghe e strette, non si possano suddistinguere in lunghe e brevi, e quindi siano adopcrabili come •lunghe e come brevi, ossia ancipiti.

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ella per è un dattilo, con la prima lunga per posizione, la se- conda breve per natura, la terza perchè è particella, che non s'allunga se non per posizione. Ariti è spondeo, ove la seconda è lunga perchè penultima accentata d' un trisillabo. Quo seti spondeo, con la prima, di natura breve, fatta lunga dalla ce- sura. Tier per spondeo, per posizione. Ruvido dattilo, perchè Yu accentato, preceduto da vocal semplice, è ancipite, e si può far lungo. Nel pentametro

Allor l'istessa Venere, non simile,

i primi due piedi spondei per posizione, sa fatto lungo per la cesura; Venere dattilo, con la prima vocale lunga perchè a- perta; non simi dattilo, col si computato breve, poiché Vi ac- centato è ancipite. Misericordia ! Venere e simile trattati di- versamente !

I nostri lettori ne avranno abbastanza, ma a noi conveniva mettere in rilievo che in cotal sistema tolemaico di prosodia l'accento non è considerato come causa costante di lunghezza della vocale, o di convenzionale parificazione d'ogni vocal ac- centata a vocale lunga. Certi effetti per la quantità gli sono at- tribuiti, ma condizionati, spesso volubili, spesso indiretti. Inoltre, il maestro fé' conto come se il verso latino risultasse sol dalla successione di sillabe lunghe o brevi, non già anche dalla po- stura delle arsi, quasi che, poniamo, l'essenza dello spondeo stia tutta nelle due lunghe, non anche nell'avere, come il dat- tilo, l'arsi sulla prima sillaba. Noto la cosa, senza pretender di dire s'egli avesse ragione o torto. Non solo non pensò di ri- correre all'espediente, oggi proprio degli esametri e degli altri versi metrici tedeschi, di far cadere l'accento dove il latino a- veva l'arsi, ma ne rifuggi, statuendo che nella cesura non s'a- vesse a far mai capitare una sillaba accentata. L'esametro che abbiamo allegato dianzi, se invece di cominciare Ella per an- tiquo, avesse cominciato Ella per ascoltar, ei l'avrebbe biasi-

LA VERSIFICAZIONE DELLE ODI BARBARE 23

mato. Tutto per lui doveva esser quantità, nient'altro che quan- tità; e l'accento non c'entrava se non per ciò che in certi tipi di parole e in certi casi contribuiva più o meno a determinare la quantità.

* * *

Ancor più ingenuo e molto più spiccio fu il campano Min- turno, sebbene non vi si riscaldasse, rimettendosene, con molta deferenza, a quanto sarebbe per insegnare il Tolomei : « di « grandissima dottrina, e di sommo ingegno, e di raro giudicio ». Della nuova arte « egli ben diede al mondo, già sono molti « anni, assaggio: ma non parve, che '1 volgo ben l'assaggiasse ». i ili è che tra le sottigliezze del monsignore sanese e la disin- voltura del vescovo di Ugento, chi aveva ragione era proprio il volgo. Sul relativo luogo dell'Arie poetica già richiamò l'at- tenzione il Bonghi n. Il criterio del Minturno suppergiù si ri- duceva a tener lunga ogni sillaba di posizione, e lunga ogni vo- cale che tal fosse nella parola greca o latina donde l'italiana deri-

I) Trascrivo il brano che è a p. 109 dell'opera (1563) : e A' piedi che lambì si « chiamano, simili farei due svllabe ; nel mezzo delle quali sia niuna consonante. Come

< sarebbe a dire, Io, Suo, Lui: o non più d'una: purché la prima syllaba sia breve: come « sarebbe Amo, Fede, Rosa. E tutte quelle particelle di due syllabe, che nella Greca, o « nella Latina favella, dalla quale elle si derivano, lunga non hanno la prima. AgliSpou- « dei due syllabe lunghe. Chiamo lunga syllaba quella cui seguono due consonanti :

< come vedete nelle prime syllabe di queste voci Fronde, Canto: o che nell'origine sua « lunga si trova quali sono le prime in queste Dono, Caro: perciocché nel Latino, onde

- elle vengono, sono pur lunghe: et ogni syllaba innanzi all'ultima, s'havrà l'accento,

< sarà da noi nelle voci di più svllabe lunga reputata : qual'è in queste voci Ardeva,

< Signore, Sedere. A' Trochei due syllabe, delle quali sia lunga la prima; e brieve la

< seconda: quali sono queste, Legge, finge, vista, pone, scrive, cara, diva. Brieve syl- « laba innanzi all'ultima dico quella, innanzi alla quale un'altra ha l'accento : qual'è m e queste particelle. Scrivere, lucido, candido, pessimo. E dell'ultime syllabe, qualunque « in Latino, o pur in Greco, ond'ha origine, e brieve: sicome in quelle voci, Fondo, « parto, dono, lieto, caro, pena, pianto, lutto, dolore, colore, fiore. Laonde in questa « nostra favella pici abbondano i Trochei, che qualsivoglia altra maniera di piedi. Al

- Dattilo qual voce assomigliaremmo? qual altra, se non quella, ch'essendo di tre syllabe e ha l'accento nella prima, la qual non sia brieve: quali son le sopradette Scrivere, lu- c cido, candido, pessimo. E tutte tre syllabe, delle quali essendo lunga la prima le due « seguenti saran brevi, faranno tal piede, t^ual sarebbe a dire, il bene, cuor mio. Ana- pesto diremo il pie di altrettante syllabe: delle quali brieve sia cosi la prima, come la e ieconda, e l'ultima lunga: qual'è Validi. Choreo similmente il pie d'altrettante syllabe ; « ma tutte brevi ; qual'è Varia ».

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vasse. Considerava dunque come trochei legge finge vista, pone scrive cara diva, e notava che i trochei abbondano. Considerava come dattili candido pessimo, scrivere lucido. Come anapesto va- lidi] Come tribraco choreo ») varia. Pei giambi veniva il guaio, ma egli s'attaccava a parole con la vocale in iato, come suo lui io, o che in latino avessero la prima breve, come amo fede rosa. Spondei gli parevano invece fronde canto, dono caro. Anche a menargli buono quel che concerne le sillabe non finali, per queste ultime la perplessità sua è grande, e un criterio, buono o cattivo, non si afferra. Dal preteso anapesto validi, dallo spon- deo fronde, dal giambo amo o fede, si direbbe ch'ei s'attenga alla quantità della finale latina; ma a che s'attiene quando per giambo rosa e per trocheo cara, e dopo registrato dono e caro tra gli spondei, poco più giù li imbranca tra le parole con la finale breve? Si direbbe quasi che dove tocca degli spondei egli non pretenda di dar parole che formino di per uno spondeo,